La Chiusura del Manicomio di Rieti: cronologia, dinamiche, contraddizioni

La Legge 833 del 23 dicembre 1978, nota come la Legge di riforma sanitaria, ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in Italia. Questa legge è stata un passo fondamentale nella storia della sanità italiana, introducendo principi di universalismo, uguaglianza e solidarietà. Ecco alcuni riferimenti chiari ed esaustivi con ganci storici e fonti attendibili:

Principi Fondamentali del SSN

  1. Universalismo:
    • La legge garantisce a tutti i cittadini il diritto di usufruire dei servizi sanitari in base ai loro bisogni e non alla loro capacità di pagare. Questo principio assicura che tutti i cittadini abbiano accesso ai livelli essenziali di assistenza stabiliti a livello nazionale.
  2. Uguaglianza:
    • La legge prevede che a tutti i cittadini sia garantita pari opportunità di accesso ai servizi sanitari, indipendentemente dalle loro condizioni individuali o sociali.
  3. Solidarietà:
    • Il finanziamento del SSN è basato sulla solidarietà, con tutti i cittadini che contribuiscono in misura proporzionale al loro reddito.

Struttura e Organizzazione del SSN

  1. Unità Sanitarie Locali (USL):
    • La riforma sanitaria ha previsto la distribuzione su tutto il territorio nazionale di una rete di Unità Sanitarie Locali (USL), che si occupano della prevenzione individuale e collettiva delle malattie fisiche e psichiche, dell’assistenza medico-specialistica e infermieristica, ambulatoriale e domiciliare, e dell’assistenza ospedaliera per le malattie fisiche e psichiche.
  2. Integrazione dei Servizi Psichiatrici:
    • La legge ha sancito la piena integrazione dei servizi psichiatrici nel complesso dei servizi sanitari e sociali, articolati per unità sanitaria locale e per distretti.
  3. Prestazioni Sanitarie:
    • Le USL sono incaricate di erogare prestazioni di prevenzione, cura, riabilitazione e medicina legale, assicurando a tutta la popolazione i livelli di prestazioni sanitarie stabiliti. Ai cittadini è garantito il diritto di libera scelta del medico e del luogo di cura nei limiti oggettivi dell’organizzazione dei servizi sanitari.

Fonti Attendibili

  • Normattiva:
    • Il sito Normattiva fornisce il testo completo della Legge 833/1978, permettendo di consultare direttamente le disposizioni legislative.
  • Dimensione Infermiere:
    • Questo sito offre una panoramica storica e dettagliata sulla nascita del Sistema Sanitario Nazionale, spiegando come la Legge 833/1978 abbia trasformato il sistema sanitario italiano, garantendo il diritto alla salute per tutti i cittadini attraverso un sistema pubblico e universalistico.
  • WHO MiNDbank:
    • La banca dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) fornisce una descrizione dettagliata della Legge 833/1978, evidenziando come il SSN sia stato istituito per promuovere, mantenere e recuperare la salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali.

Contesto Storico

Prima della Legge 833/1978, l’erogazione dei servizi sanitari in Italia si basava sulle cosiddette “mutue”, associazioni mutualistiche appartenenti a diverse categorie professionali. La legge ha rappresentato una riorganizzazione completa del sistema sanitario, dalla capillarizzazione territoriale fino ai vertici decisionali, garantendo un accesso universale e uguale ai servizi sanitari per tutti i cittadini.

 

 

“Le terapie psichiatriche nell’ospedale psichiatrico San Francesco di Rieti e in Italia negli anni ’30, ’40 e ’50: uno sguardo storico e medico.”

Panoramica storica e sociale

Tra gli anni ’30 e ’50 l’assistenza psichiatrica italiana fu profondamente segnata dall’evoluzione delle pratiche terapeutiche e organizzative nei manicomi. Nel contesto dell’epoca, le “cure” riflettevano non solo i limiti scientifici ma anche le tensioni sociali e culturali, offrendo oggi spunti di riflessione per chiunque voglia comprendere come la medicina e i diritti umani siano cresciuti di pari passo.

Le terapie degli anni ’30-’50 raccontano la storia di una medicina in bilico tra sperimentazione, speranza, mancanza di strumenti scientifici adeguati e, talvolta, violenza istituzionale. L’arrivo dei farmaci e l’apertura ai diritti umani sanciranno, negli anni a venire, la definitiva uscita dall’oscurantismo manicomiale e l’inizio della moderna psichiatria comunitaria.

 

Le terapie fisiche e somatiche

  1. Ergoterapia
  • Era diffusa come terapia occupazionale: i pazienti venivano coinvolti in lavori manuali considerati parte del trattamento riabilitativo, con l’obiettivo di impegnare corpo e mente per prevenire l’ozio e “rieducare” al lavoro. L’ergoterapia, tipica di quegli anni, fungeva anche da misura di contenimento sociale.
  1. Insulinoterapia
  • Introdotta negli anni ’30 come terapia d’urto per la schizofrenia e altri disturbi gravi, consisteva nella somministrazione di dosi crescenti di insulina finché il paziente non entrava in coma ipoglicemico controllato. Lo scopo era “shockare” il sistema nervoso per indurre miglioramenti comportamentali e relazionali, anche se spesso con rischi altissimi.
  1. Malarioterapia
  • Impiegata specialmente per la neurosifilide (paralisi progressiva), consisteva nella deliberata infezione del paziente con malaria per indurre febbri elevate, ritenute capaci di uccidere il batterio sifilitico. Questa sperimentazione valse anche il Nobel a Wagner-Jauregg nel 1927.
  1. Elettroshock (Terapia Elettroconvulsivante, TEC)
  • Dalla fine degli anni ’30, la terapia ideata da Ugo Cerletti prevedeva l’induzione di crisi epilettiche tramite corrente elettrica. Pur priva inizialmente di anestesia e con effetti collaterali importanti, fu vista come rivoluzionaria per la depressione e le psicosi maggiori e largamente adottata negli anni ’50, anche in assenza di diagnosi precise.

 

 

 

 

 

 

  1. Psicochirurgia
  • A partire dai primi anni ’50, in alcuni ospedali italiani si praticava la lobotomia, intervento chirurgico sul cervello per “sedare” la malattia mentale. Degradata rapidamente per i suoi effetti devastanti e irreversibili, la psicochirurgia in realtà risparmiò alcune strutture come quella di Rieti, dove non venne praticata.

 

La svolta dei farmaci e delle diagnostiche

Farmaci psicofarmaci e psicocinetici

  • La metà degli anni ’50 segna l’arrivo dei primi psicofarmaci: clorpromazina, sedativi, tranquillanti. Questi permisero un drastico calo dell’uso di mezzi fisici di contenzione e segnarono una svolta nella gestione della “pericolosità” psichiatrica, aprendo la strada a una nuova idea di “manicomio senza sbarre”.

Diagnostica

  • Negli ultimi anni ’50, la sistematicità della diagnostica aumentò. Tutti i pazienti venivano sottoposti a esami di laboratorio, sangue, urine, liquido cerebrospinale. Si progettarono (ma spesso solo sulla carta) servizi di radiologia, odontoiatria, oculistica. Nonostante le promesse, molte strutture erano sotto-dotate: le cure odontoiatriche, ad esempio, non andavano oltre le semplici estrazioni anche a fronte di centinaia di ricoverati.

Innovazioni ambientali

  • Dalla fine degli anni ’50 si iniziarono a introdurre apparecchi televisivi nei reparti, per migliorare il collegamento dei pazienti con il mondo esterno e “rendere meno grigia” la vita quotidiana. Questa innovazione rappresenta un primo timido riconoscimento del bisogno di stimoli sociali e culturali nei percorsi di cura.

Oggetti, memoria e storie: il lavoro presso il Laboratorio Museo della Salute Mentale di Rieti

Passeggiare oggi nel parco dell’ex manicomio di Rieti non è solo un’esperienza visiva: è un viaggio nella memoria. Il sociologo Massimo De Angelis sta raccogliendo le tracce di un passato che non deve essere dimenticato. 

Un lavoro paziente, fatto di ascolto, osservazione e rispetto per tutto ciò che è stato.

Questa attività si ispira a un approccio che mescola sociologia, etnografia e memoria materiale, come facevano Walter Benjamin e Foucault: cercare significati nei luoghi e negli oggetti, dare voce al silenzio delle cose. Insieme a lui, due figure fondamentali: il geometra Antonio Vincenzi, che con precisione e passione supporta la parte tecnica e strutturale del progetto, e Davide Galeone, tecnico informatico che sta lavorando alla digitalizzazione e alla valorizzazione dei materiali.

 

Villa Focaroli : uno sguardo al passato

Nel concludere, almeno per ora, la sezione dedicata alla villa ottocentesca di Villa Focaroli — situata nei pressi del Colle San Basilio, nell’area destinata a trasformarsi nella futura Città Sanitaria di via del Terminillo, ovvero l’ex Ospedale Psichiatrico Provinciale — è necessario compiere un passo indietro nel tempo. Per comprendere appieno la portata storica e simbolica di questo luogo, occorre infatti ripartire, anche se brevemente, dall’anno 1932.

Oggi nel 2025 è la sede della  COMUNITÀ TERAPEUTICO-RIABILITATIV A “ La Villa ” (SRTRe)

 

 

 

 

 

E’ una struttura sanitaria residenziale posta nel territorio di Rieti, in v. Tavola d’Argento 19. Può ospitare fino a 9 utenti (maschi e femmine), che accedono su invio delle equipe dei CCSSMM di appartenenza, per effettuare percorsi terapeutico-riabilitativi integrati, della durata media di uno\due anni. Vi opera una equipe multidisciplinare composta da psichiatri, psicologi, infermieri, tecnici della riabilitazione psichiatrica, assistente sociale, OSS. Si accede su richiesta dei CC.SS.MM., in base alla normativa vigente.

La storia di Villa Focaroli, almeno per quanto riguarda il terreno su cui sorgerà il Manicomio di Rieti, prende avvio nel 1932. È in quell’anno che l’Amministrazione provinciale di Rieti annunciò ufficialmente la propria disponibilità ad avviare trattative con enti pubblici e privati per l’acquisto di un fondo agricolo. L’obiettivo iniziale era quello di istituire una colonia agricola, ma il progetto si ampliò rapidamente: nei piani dell’ente, infatti, prese forma anche la realizzazione di un padiglione destinato ai malati psichiatrici tranquilli.

 

 

Nel 1931 l’Amministrazione provinciale di Rieti acquistò dalla famiglia Matricardi un podere situato in località San Basilio, conosciuta anche come località Trivi. Il terreno, scelto con attenzione, presentava caratteristiche ideali per i progetti dell’ente: tra queste, la presenza di una sorgente d’acqua, fondamentale per garantire il fabbisogno idrico sia dell’ospedale in via di progettazione, sia dell’azienda agricola che si intendeva sviluppare parallelamente alla struttura sanitaria.

Nel 1932 l’Amministrazione provinciale decise di acquisire Villa Focaroli, una residenza ottocentesca situata a soli 100 metri dall’area individuata per la futura Città Sanitaria di via del Terminillo. La villa, per la sua posizione strategica e la struttura già esistente, fu destinata ad ospitare il “Reparto Tranquilli”, in attesa della costruzione dei nuovi padiglioni dell’ospedale psichiatrico. Proprio in quell’anno, furono trasferiti circa 100 pazienti dal vecchio ospedale psichiatrico di San Francesco, situato nel centro storico di Rieti, segnando così l’inizio concreto del nuovo polo sanitario.

Un aspetto spesso trascurato nella storia di Villa Focaroli è quello che risale al 1933, quando il Rettorato della Provincia di Rieti decise di istituire all’interno della villa un *Reparto Pensionanti*, come succursale del complesso manicomiale. Questa struttura fu pensata per rispondere alle richieste, sempre più numerose, di famiglie che da tempo sollecitavano un trattamento più dignitoso per i propri congiunti ricoverati — persone disposte a sostenere economicamente sia l’assistenza sanitaria che le spese per vitto e alloggio.

Per molti anni, il Reparto Pensionanti rappresentò una realtà attiva e significativa all’interno del sistema psichiatrico provinciale. Non solo offriva un livello di cura più personalizzato, ma divenne anche una *fonte di introiti rilevanti* sia per l’Amministrazione che per il personale medico coinvolto.

Solo in seguito, e per un periodo limitato, Villa Focaroli fu adibita ad accogliere suore e bambini, ma è importante non dimenticare il suo ruolo iniziale e centrale nella storia dell’assistenza psichiatrica reatina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mappa concettuale sintetica dell’assistenza psichiatrica fasi e leggi importanti

 

 

Fase

Anni

Caratteristiche principali

Obiettivo

Prima fase

fino anni ’60

Manicomi segreganti, ricovero coatto, scarsa assistenza medica

Contenimento sociale

Legge Mariotti

1968

Ricovero volontario, limitazione sovraffollamento, personale qualificato, nascita centri territoriali

Inizio distinzione cura/custodia

Riforma sanitaria generale

1968

Ospedali psichiatrici integrati in rete ospedaliera autonoma

Modernizzazione sanitaria, diritto alla salute

Legge Basaglia

1978

Chiusura manicomi, servizi territoriali, riconoscimento diritti pazienti

Deistituzionalizzazione e cura sul territorio

Periodo: 1950-1978 anche in Rieti ): la scissione tra cura e custodia / La riforma dell’assistenza psichiatrica: da manicomio a territorio

Negli anni ’60 e ’70, il manicomio (istituzione totale e segregante) fu centrale nel dibattito pubblico a causa di condizioni disumane, sovraffollamento, scarsa assistenza medica e violenze interne.

La nascita del movimento antipsichiatrico e la diffusione di approcci psicoanalitici e psicoterapeutici cambiarono radicalmente l’idea di cura mentale: il malato non doveva più essere solo custodito ma curato e integrato.

1961Contesto storico e personaggi coinvolti

  1. Vincenzo Scaccia: Ingegnere capo della Provincia di Rieti nel 1961, responsabile dell’invio del progetto di completamento del Padiglione Agitati al presidente dell’ente provinciale.
  2. Gino dell’Uomo D’Arme: Geometra che redasse il piano per i lavori di completamento del padiglione. Il suo progetto includeva lavori murari, sistemazione dei servizi e allacci alle reti elettrica, idrica e fognaria.

Progetto di completamento del Padiglione Agitati

  • Lavori previsti: Il progetto includeva:
    • Lavori murari
    • Sistemazione dei servizi igienici e altri servizi
    • Allacciamenti alla rete elettrica, idrica e fognaria
  • Costo: Il costo stimato per questi lavori era di circa 30 milioni di lire.
  • Risultato: Il completamento del padiglione permise di accogliere ulteriori 60 malati, aumentando la capacità totale dell’ospedale psichiatrico.

 

 

Sviluppo dell’Ospedale Psichiatrico di Rieti

Completamento dei Padiglioni: Con il completamento dei 7 padiglioni, l’ospedale psichiatrico di Rieti raggiunse il numero di internati previsto da Milani circa 30 anni prima.

Distribuzione degli edifici: I pazienti erano distribuiti in 23 edifici, indicando una struttura molto ampia e articolata.

Il progetto, ispirato all’epoca fascista, mira a migliorare il benessere psicologico dei pazienti attraverso un ambiente meno restrittivo e più aperto. La progettazione degli spazi, con ampi dormitori, vetrate e giardini, è orientata a creare un’impressione di libertà e normalità, promuovendo un approccio terapeutico più umano e meno istituzionale.

Ecco un approfondimento basato su fonti storiche e architettoniche:

Design e Filosofia

  1. Ampi spazi:

Gli ospedali psichiatrici progettati in epoca fascista erano caratterizzati da ampi spazi aperti, che permettevano una maggiore libertà di movimento ai pazienti. Questo era in linea con l’idea che l’ambiente potesse influenzare positivamente la salute mentale dei pazienti, offrendo loro la possibilità di muoversi liberamente e di godere di spazi verdi .

  1. Dormitori ampi:

I dormitori erano progettati per ospitare un numero significativo di malati, con l’obiettivo di creare un ambiente che fosse sia funzionale che terapeutico. La disposizione dei letti e degli spazi comuni era studiata per favorire la socializzazione e il senso di comunità tra i pazienti.

  1. Ampie vetrate:

Le ampie vetrate erano una caratteristica distintiva di questi edifici, progettate per permettere l’ingresso di luce naturale e creare un ambiente più aperto e meno oppressivo. La luce naturale era considerata essenziale per il benessere psicologico dei pazienti, contribuendo a creare un’atmosfera più accogliente e meno istituzionale.

Filosofia di cura

La filosofia di cura degli ospedali psichiatrici in epoca fascista era incentrata sull’idea di creare un’impressione di libertà. Questo approccio era basato sulla convinzione che un ambiente meno restrittivo e più aperto potesse migliorare il benessere psicologico dei pazienti. La progettazione degli spazi e degli edifici era quindi orientata a creare un ambiente che fosse il più possibile simile a una comunità normale, piuttosto che a un’istituzione chiusa e oppressiva.

Significato Storico e Sociale

Evoluzione della psichiatria: Questo progetto riflette l’evoluzione delle pratiche psichiatriche nel corso del tempo, con un passaggio da strutture più restrittive a un approccio che cerca di integrare elementi di libertà e benessere.

Impatto sulla comunità: L’espansione dell’ospedale permise di accogliere un maggior numero di pazienti, rispondendo alle esigenze di una popolazione in crescita e alle necessità di cura per i malati mentali.

 

 

 

1963  i malati ospitati furono 783

1964 Nel 1964, l’ex manicomio di Rieti ospitò 778 pazienti, di cui 190 furono impiegati come malati lavoratori, inclusi quelli che lavorarono nell’azienda agricola. Questi pazienti furono attivamente coinvolti in vari laboratori, tra cui quelli di calzoleria, falegnameria e meccanica. Inoltre, svolsero mansioni nel giardino, nell’orto, nel guardaroba e nella lavanderia. Tuttavia, il compenso per il loro lavoro fu nullo o puramente simbolico, ammontando a sole 60 lire giornaliere, oltre a una merenda pomeridiana.

1967 Nel 1967, gli ospiti della struttura sanitaria raggiunsero quota 748. È importante sottolineare – pur evitando generalizzazioni – come in quegli anni non fossero rari casi di negligenza da parte del personale impiegato. Alcuni infermieri, infatti, furono oggetto di provvedimenti disciplinari per aver prestato un’assistenza carente e superficiale ai pazienti. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta venne applicata con costanza l’ergoterapia, inserita in un più ampio contesto di trasformazioni. Fu un periodo segnato da profonde rivoluzioni nel sistema di cura, che lasciavano intravedere i primi segnali di un cambiamento culturale e assistenziale.

 

1965 L’apertura del Centro di Igiene Mentale (CIM) e la trasformazione dei servizi psichiatrici negli anni Sessanta

Nel 1965 fu attivato a Rieti il Centro di Igiene Mentale (CIM), la cui istituzione era stata formalmente deliberata dalla Provincia già nel 1960, in linea con le direttive regionali e nazionali che, a partire dal secondo dopoguerra, promuovevano una progressiva estensione dei servizi psichiatrici extraospedalieri. Il modello organizzativo iniziale del CIM ricalcava, di fatto, quello del precedente ambulatorio psichiatrico attivo sin dagli anni Trenta in via San Rufo 10: le prestazioni si limitavano a visite ambulatoriali e consulenze mediche, mentre l’assistenza domiciliare restava episodica e residuale.

In questa prima fase, la gestione clinica fu affidata al direttore dell’ospedale psichiatrico, e l’impostazione operativa del centro risentiva ancora fortemente del paradigma manicomiale tradizionale, centrato sulla custodia e sulla cronicizzazione del paziente.

I CIM, nati come articolazioni territoriali dei servizi psichiatrici ospedalieri, avrebbero dovuto rappresentare un primo nucleo di assistenza preventiva e riabilitativa sul territorio, ma nei fatti – almeno fino alla metà degli anni Settanta – svolgevano prevalentemente funzioni di filtro per il ricovero o di gestione post-dimissione, in assenza di strumenti e risorse adeguate per una reale presa in carico globale del paziente.

Un elemento di discontinuità si registrò nel 1966, con l’ingresso della prima assistente sociale all’interno dell’ospedale. La sua presenza segnò un tentativo iniziale di integrazione tra intervento sanitario e indagine socio-relazionale. Le sue mansioni includevano la collaborazione con il personale medico e religioso del reparto, la conduzione di approfondite indagini socio-economiche su ciascun paziente ricoverato, il monitoraggio delle dimissioni, il supporto al reinserimento sociale in caso di difficoltà familiari e ambientali, nonché l’avvio delle pratiche per l’assegnazione di sussidi e pensioni.

Questa figura professionale anticipava, sebbene in forma ancora embrionale, la necessità di un approccio multidisciplinare e territoriale alla salute mentale, che si sarebbe affermato con maggiore chiarezza soltanto con la Legge 180 del 1978 e il conseguente superamento del modello manicomiale. Tuttavia, negli anni Sessanta, i CIM restavano ancora ampiamente subordinati all’istituzione manicomiale, più come estensione che come alternativa, riflettendo le contraddizioni di un sistema in transizione tra controllo e cura, tra istituzionalizzazione e comunità.

 

1968 La riforma sanitaria più ampia

La legge Mariotti riformò anche l’intero sistema sanitario, introducendo gli enti ospedalieri autonomi e riconoscendo il diritto alla salute come diritto fondamentale e indipendente dalla volontarietà.

Gli ospedali psichiatrici furono integrati nel sistema ospedaliero generale, segnando un passaggio da un approccio esclusivamente custodia verso un modello sanitario e assistenziale vero e proprio

1975 La Provincia aveva progettato l’istituzione di 5 CIM esterni ma venne abbandonata l’ergoterapia per paura di essere accusati di sfruttamento su lavoro

1978 La svolta definitiva: Legge Basaglia

Nel 1978, con la Legge 180, l’Italia fu il primo paese al mondo a prevedere la chiusura dei manicomi e a sostituirli con servizi di igiene mentale pubblici territoriali.

Questa legge sancì la fine del manicomio come luogo di segregazione sociale e fece della cura domiciliare e territoriale il fulcro dell’assistenza psichiatrica.

 

Storia e sociologia della cura nel manicomio: riflessioni e criticità

Partiamo da un dato fondamentale nella riflessione sociologica e storica sulle istituzioni psichiatriche: come osserva Edwin M. Lemert (1967), il malato “comune” nel manicomio subisce un processo di mortificazione del sé, ovvero una progressiva negazione e svalutazione della propria identità individuale. Questo concetto è cruciale per comprendere come l’istituzionalizzazione possa avere effetti devastanti sulla psiche dei pazienti. Inoltre, secondo Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia (1975), il manicomio non rappresenta un luogo di cura, ma di contenimento; esso è destinato principalmente a rinchiudere “certe devianze di comportamento”, spesso di appartenenti alle classi sociali subalterne.

Questa doppia prospettiva – quella della sociologia critica e quella dell’antipsichiatria – apre il campo a una lettura delle istituzioni manicomiali come strumenti di controllo sociale più che di reale assistenza sanitaria. Il manicomio, quindi, non solo non cura, ma contribuisce a marginalizzare ulteriormente i pazienti, spesso già emarginati dalla società.

Il contesto locale di Rieti: storia degli approcci e delle strutture

Il Canale Ufficiale del Museo di Salute Mentale di Rieti intende sottolineare la complessità con cui la psichiatria è stata praticata in ambito locale, evitando di entrare nei dettagli tecnici dei metodi terapeutici adottati, spesso controversi o poco documentati, ma sottolineando l’interazione tra approccio medico e contesto sociale.

Storicamente, la gestione dei malati mentali nel reatino ha visto momenti di eccellenza e altri decisamente meno positivi, come testimoniano le figure di alcuni direttori sanitari di rilievo – quali Alessandrini e Virgili – i cui contributi sono stati alternati a periodi di conduzione meno lungimirante o efficiente.

Dal punto di vista organizzativo, fondamentale fu l’apertura nel 1965 del primo Centro di Igiene Mentale (CIM), istituito dalla Provincia di Rieti. Tale struttura segnò una svolta, con l’obiettivo di promuovere interventi di cura e riabilitazione nell’ambito sociale e familiare, alternativa al ricovero esclusivo.

Negli anni ’70, in particolare intorno al 1975, la Provincia pianificò inoltre l’istituzione di altri 5 CIM periferici, volti a decentralizzare e rendere più accessibile la cura, focalizzata sulla reintegrazione sociale.

Tuttavia, questo periodo vide anche un abbandono dell’ergoterapia, ovvero delle attività lavorative terapeutiche all’interno delle strutture. Questo abbandono, motivato dalla paura che l’ergoterapia potesse essere percepita come sfruttamento del lavoro, rappresenta un esempio emblematico di incertezza e difficoltà nell’interpretare il ruolo riabilitativo del lavoro nei trattamenti psichiatrici.

La grande domanda: è stato giusto “smantellare” il manicomio?

Questa domanda resta centrale nel dibattito attuale: la riforma psichiatrica e la chiusura dei manicomi tradizionali, accelerata dalla Legge 180 del 1978 (Legge Basaglia), hanno rappresentato una rivoluzione nel modo di intendere la salute mentale in Italia.

La legge ha posto fine al ricovero coatto indiscriminato e allo stigma legato alla malattia mentale, promuovendo interventi territoriali, tutela dei diritti e attenzione alla persona. Tuttavia, va sottolineato che la legge da sola non poteva essere risolutiva. Il passaggio dal modello aspecifico e segregante del manicomio a un sistema di assistenza territoriale e integrata è stato e resta un processo complesso, irto di ostacoli burocratici, carenze di risorse e resistenze culturali.

Specialmente nel reatino, benché vi siano stati momenti di collaborazione e diagnosi avanzata tra Provincia, Direzioni sanitarie e operatori, con qualche esempio di eccellenza, molto è andato perso negli anni successivi.

Le difficoltà del presente e le radici culturali dello stigma a distanza di oltre trent’anni dalla chiusura dei manicomi, restano irrisolti molteplici problemi: le pratiche burocratiche hanno spesso rallentato o bloccato innovazioni nei servizi; le esigenze dei malati e degli operatori sociali e sanitari sono state minimizzate; il paziente psichiatrico continua a essere vittima di stigma e pregiudizio.

La cultura italiana – come molte altre – porta impresse radici profonde nell’associazione tra malattia mentale e pericolosità sociale. Concetti quali “mettersi in guardia” o “il diverso pericoloso” hanno radici antiche e resistono, contribuendo a mantenere stereotipi e barriere all’inclusione.

Considerazioni Conclusive e Incertezze

Il percorso storico e sociale della salute mentale a Rieti e in Italia indica con chiarezza che:

  • Il manicomio è stato più strumento di controllo sociale che di cura,
  • La riforma Basaglia ha segnato un cambio epocale, ma non ha risolto tutte le criticità,
  • L’erogazione di assistenza psichiatrica integrata e multidisciplinare è una sfida aperta,
  • Lo stigma e la paura della differenza permangono ostacoli culturali importanti.

Resta dunque essenziale un impegno continuo per garantire che memoria storica, innovazione assistenziale e sensibilizzazione sociale possano convergere verso un modello di salute mentale efficace e inclusivo.

Fonti Principali Consultate e Consigliate per Approfondimento

  1. Lemert, E. M. (1967). Social Pathology: A Systematic Approach to the Theory of Sociopathic Behavior. McGraw-Hill.
  2. Basaglia, F., & Ongaro Basaglia, F. (1975). L’istituzione negata. Einaudi.
  3. Rinaldi, M. (2013). L’ordine di protezione. Storia e critica della psichiatria italiana. Carocci.
  4. Beccaria, A. (2002). Storia della psichiatria italiana. Il Mulino.
  5. Sani, F. (2010). L’invenzione del manicomio: storia, psichiatria e società. Laterza.

 

 

 

✦ La Chiusura del Manicomio di Rieti: cronologia, dinamiche, contraddizioni

1978 – La rivoluzione della Riforma Basaglia

Il 13 maggio 1978 viene approvata la Legge 180, nota come “Legge Basaglia”, firmata da Bruno Orsini su impulso dello psichiatra Franco Basaglia. Con essa si sancisce il superamento dei manicomi tradizionali, la promozione di servizi psichiatrici territoriali, l’istituzione del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) solo per casi urgenti, e si apre una nuova dimensione centrata sulla dignità del paziente.
Nella pratica nazionale, però, il processo è stato lento: malgrado la legge fosse operativa dal 13 maggio, di fatto gli ospedali psichiatrici continuarono ad operare decenni dopo.

1981 – Progetto di deospedalizzazione basato sull’autonomia

Nel 1981, il Manicomio di Rieti ospitava 315 degenti, quasi 200 dei quali con buona autonomia. Il direttore sanitario propose un progetto di ristrutturazione orientato alla deospedalizzazione in base ai bisogni individuali e all’autonomia residua.

1983 – Legge regionale Lazio n. 49

Questa legge prevedeva l’istituzione del Servizio Dipartimentale di Salute Mentale, suddiviso in due aree:

  1. Socio‑sanitaria per situazioni psichiatriche gravi;
  2. Socio‑assistenziale per pazienti con necessità di supporto sociale.
    Tuttavia, tutto rimase largamente sulla carta: nulla fu attuato fino alla chiusura definitiva del manicomio.

La vita dentro il Manicomio tra noia e stagnazione

Malgrado le leggi riformatrici, i pazienti vissero come prima del 1978: immersi in ozio e vuoto esistenziale. Alcuni lavoravano, altri restavano isolati sulle panchine o lungo il viale d’ingresso, chiedendo elemosine. Anche chi aveva una certa autonomia non aveva una stanza personale, né un contesto dignitoso.
La città visse un’iniziale mobilitazione – assemblee, associazioni, cooperative esterne promossero qualche attività – ma subito dopo crollò l’interesse pubblico. Si realizzarono soltanto alcune comunità protette e case famiglia, spesso con resistenze e stigma ancora radicati. Dopo un breve fermento, ripiombò l’indifferenza.

1998 – Il trasferimento dell’ufficio tecnico

Nel 1998, l’Ufficio tecnico della ASL di Rieti venne trasferito nell’ex Padiglione Lavanderia‑Sartoria (oggi blocco 5). In quegli spazi erano ancora ricoverati circa 100 pazienti. Nella struttura:

  • al piano superiore una comunità famiglia per disabili mentali;
  • al piano terra la Guardia medica e ambulatori di prevenzione psichiatrica.

 

1999 – La chiusura definitiva

Nel 1999 scatta la chiusura definitiva. A promuoverla fu la Procura della Repubblica di Rieti, che intervenne dopo una denuncia anonima accusando medici e infermieri di “sequestro di persona”: per sicurezza rimuovevano le maniglie dalle porte di notte, impedendo ad alcuni degenti di uscire furtivamente la notte.
L’Autorità giudiziaria ordinò lo svuotamento immediato del complesso:

  • alcuni pazienti furono trasferiti in centri psichiatrici di Frosinone e Latina;
  • altri ospitati in Villa Belvedere (ex Hotel Salario, Torricella in Sabina);
  • altri ancora accolti in una RSA nella zona di Campoloniano (Rieti);
  • pochi ritornarono alle famiglie.